Mele e salute: cosa accade al DNA di chi vive a contatto con i pesticidi


Grazie al suo contenuto di acidi organici, vitamine, fibre solubili e polifenoli, gran parte dei quali sono componenti della buccia, la mela è un frutto noto per gli aspetti salutistici e per i molti effetti benefici alla salute. E’ un antitumorale, protegge il sistema cardiovascolare, è utile per la salute dell’osso e contrasta l’invecchiamento a patto che non venga prodotta utilizzando grandi quantità di pesticidi, altrimenti gli svantaggi diventano molti più dei vantaggi.

Il problema pesticidi in agricoltura è un tema molto dibattuto oggi, in quanto è noto che gran parte delle sostanze in uso hanno una elevata tossicità e persistenza, costituendo così una minaccia per la salute degli agricoltori, dell’ambiente, nel quale si concentrano, accumulano nel terreno e nelle acque, e per biomagnificazione in specie viventi che, entrando nella catena alimentare, diventano un rischio per i consumatori, per tutto l’ecosistema, ma soprattutto sono nocivi per chi vive a ridosso delle aree agricole coltivate intensivamente.

Per valutare proprio gli effetti di questa esposizione, abbiamo condotto un monitoraggio biologico da Novembre 2014 a Giugno 2015, mirato a valutare se l’esposizione ambientale ai pesticidi durante i trattamenti influenzasse l’integrità del DNA e l’attività degli enzimi di riparazione dei residenti.

Siamo in Val di NON e lo studio ha riguardato 33 residenti, nessuno dei quali è agricoltore, le cui abitazioni però sono in tre diverse zone, tutte a ridosso dei meleti (100 mt di distanza). L’esposizione dei residenti è stata verificata sia mediante monitoraggio ambientale (presenza di pesticidi nell’aria e nella polvere all’esterno della casa e nella polvere raccolta all’interno delle abitazioni), sia attraverso il monitoraggio urinario del metabolita del Clorpirifos CPF, durante 3 periodi, che in base all’intensità dei trattamenti con pesticidi abbiamo definito bassa (novembre) – nulla (febbraio) – o alta esposizione (giugno).

Il CPF è uno dei pesticidi maggiormente usati fino ad oggi in questi tipi di coltivazione, basti dire che è uno dei maggiori contaminanti sia dei terreni che delle acque Trentine, dove in alcuni punti la sua concentrazione ha superato il valore massimo di standard quality delle acque (SQA, 50 µg/l7).

Ma cosa è emerso dallo studio? Il monitoraggio ambientale ha evidenziato la presenza di un cocktail di 18 diversi pesticidi, tra cui molti fungicidi trovati nella polvere interna ed esterna, mentre gli insetticidi più presenti all’esterno delle case sono il Boscalid e Clorpirifos (fig 1). Lo studio del DNA dei residenti ha evidenziato che durante i trattamenti ai meleti il danno al DNA aumenta proporzionalmente all’intensità e quindi maggiore nel periodo di alta esposizione, mentre non si evidenzia danno durante il periodo in cui non si fanno trattamenti. Altra cosa importante che abbiamo osservato è che i residenti presentavano una bassa attività degli enzimi deputati a riparare il danno al DNA, se paragonati ad una popolazione di non esposti, anche nel periodo di esposizione nulla, che diminuiva progressivamente all’aumentare dei trattamenti, mostrando la più bassa attività di riparazione nel periodo di Giugno.

L’esposizione ai pesticidi, quindi, rende inefficiente il sistema di riparazione del DNA, che è fondamentale per mantenere l’integrità del DNA ed evitare l’accumulo del danno che a lungo termine potrebbe contribuire, insieme ad altri fattori individuali, ad aumentare il rischio di tumori, influenzando indirettamente l’instabilità del genoma, che è un prerequisito per la carcinogenesi. Inoltre, recentemente è stato evidenziato da vari studi scientifici che l’esposizione cronica a sostante tossiche a basse dosi è quella più critica in quanto, pur non creando un effetto tossico acuto, le sostante tossiche possono indurre modifiche epigenetiche sul DNA o disfunzioni mitocondriali, che si manifestano in patologie anche molti anni dopo l’esposizione.

Per confermare lo stato di esposizione nella nostra popolazione abbiamo effettuato il monitoraggio urinario del clorpirifos CPF, le cui concentrazioni sono risultate più elevate durante il periodo di massimi trattamenti e proporzionali alla distanza dell’abitazione dai campi trattati (più i residenti erano vicini ai campi, più alte le concentrazioni di pesticida nelle urine), confermando i risultati di un monitoraggio urinario già effettuato nel 2009, (fig.2) suggerendo una esposizione cronica a questo pesticida, sulla cui pericolosità si discute da molto tempo.

Il CPF infatti, come tutti i pesticidi organofosforici, è un inibitore dell’acetilcolinesterasi, enzima che controlla i livelli del neurotrasmettitore acetilcolina nel sistema nervoso centrale e periferico e diversi studi hanno correlato l’esposizione al CPF con i danni al sistema nervoso, problemi comportamentali e basso quoziente intellettivo nei bambini le cui madri siano state esposte al pesticida durante la gravidanza.

Per questi effetti, l’Environmnental Protection Agency (EPA), intende revocare l’utilizzo del pesticida clorpirifos già a partire dal 2016 in USA, dopo averne già vietato l’uso domestico. In Europa dove è ancora ammesso, il CPF è il pesticida a cui le gestanti sono prevalentemente esposte attraverso la dieta, poiché presente come residuo nella maggior parte della frutta. E un altro studio sulla popolazione danese, indica le mele come il frutto maggiormente responsabile dell’esposizione a pesticidi attraverso la dieta (30%). Attraverso la placenta, queste sostanze passano al feto dove possono compromettere l’integrità genomica e dove, per certi tessuti e organi (sistema nervoso, polmoni, sistema immunitario), c’è una finestra di vulnerabilità che si estende fino al periodo neonatale e alla pubertà. Tanto più precoce è l’esposizione tanto più grave può essere il danno, per questo le donne in gravidanza e i bambini andrebbero protetti dall’esposizione ambientale.

Il nostro lavoro, mostra come i pesticidi che dai punti di irrorazione, si disperdono nell’ambiente fino alle case ed entrano all’interno di esse dove si accumulano nella polvere e negli aspirapolveri, creano una condizione di esposizione cronica, che poi si traduce in alterazioni “silenziose” del sistema di riparazione del DNA.

E di danno al DNA, come conseguenza dell’esposizione ai pesticidi, parla anche un altro studio effettuato su 180 bambini di età 7-12 anni residenti in aree agricole: lo studio conclude che il danno genotossico al DNA era più elevato nei bambini che mostravano le concentrazioni urinari di organofosfati più elevati, che risiedono da più tempo nelle zone trattate (maggiore tempo di esposizione) e che consumavano più frequentemente le mele. Insomma questo frutto potenzialmente vantaggiosissimo per la salute – se coltivato con agricoltura biologica – in realtà si rivela un problema per la salute dell’ambiente e dell’uomo quando coltivato con pesticidi, troppi, che poi troviamo anche all’interno del frutto come multiresiduo (presenza contemporanea di più pesticidi), sebbene spesso siano rilevati entro i limiti massimi residuali (LMR).

Ma cosa garantiscono i LMR, se poi in realtà la maggior parte dell’esposizione per molti è ambientale e le vie espositive sono molteplici (aria, acqua cibo) risultando così in un effetto accumulo che per molti, soprattutto i bambini, può superare di molto la soglia di sicurezza? Inoltre il CPF come il glifosato, è un interferente endocrino, ossia in grado di alterare il sistema endocrino, influenzando negativamente diverse funzioni vitali quali lo sviluppo, la crescita, la riproduzione e il comportamento sia nell’uomo sia nelle specie animali e per queste sostanze non esistono valori soglia, ma solo il principio di precauzione, di evitarne l’esposizione. E invece proprio uno studio mirato ad individuare dei pattern alimentari che esponessero di più i bambini ai pesticidi evidenzia come il consumo di mele più di 3 volte a settimana risulta in una maggiore concentrazione urinaria di CPF rispetto a chi ne consuma meno di 3 volte a settimana, confermando la dieta rappresenta la fonte maggiore di esposizione ai pesticidi, dove non c’è esposizione ambientale.

Che fare allora? Prima di tutto le donne in gravidanza e i bambini, in quanto più vulnerabili, dovrebbero essere allontanati da aree coltivate intensivamente, e le future mamme incoraggiate a consumare alimenti prodotti coltivati in agricoltura biologica e biodinamica, visto che le sostanze introdotte con la dieta passano la via transplacentare raggiungendo il feto.

In una politica di prevenzione bisognerebbe finanziare e sostenere i produttori biologici riconoscendo loro il ruolo di custodia del territorio, tutela e conservazione della biodiversità e sensibilizzare la popolazione al consumo di prodotti biologici, almeno quelli più a rischio di residui di pesticidi (mele, fragole, pesche albicocche, cavolfiori) non valutando gli aspetti residuali nell’alimento in sé, seppur importanti, ma facendo crescere la consapevolezza che la produzione alimentare se fatta con pesticidi produce un impatto ambientale le cui conseguenze sono enormi in termini di costi per risanare i siti inquinati e sanitari, per tutte le patologie oggi in aumento e strettamente legate all’ambiente malsano e a bassa qualità del cibo.

 

 

 

 

 

 

 

Referenze

Alleva R, et al. Organic honey supplementation reverses pesticide-induced genotoxicity by modulating DNA damage response. Mol Nutr Food Res. 2016 Oct;60(10):2243-2255

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Sutris JM, How V, Sumeri SA, et al. Genotoxicity following organophosphate pesticides exposure among Orang Asli children living in an agricultural island in Kuala Langat, Selangor, Malaysia. Int J Occup Environ Med 2016;7:42-51.

Sabine A.S.Langie et al. Causes of genome instability: the effect of low dose chemical exposures in modern society Carcinogenesis, 2015, Vol. 36, Supplement 1, S61–S88

Shelton JF,  et al. Neurodevelopmental disorders and prenatal residential proximity to agricultural pesticides: the CHARGE study. Environ Health Perspect 2014;122:1103–1109;

Chronic dietary exposure to pesticide residues and associated risk in the French ELFE cohort of pregnant women Erwan de Gavelle aEnvironment International 92–93 (2016) 533–542

 

 

 

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